The Future of EOSH/10 – Covid-19 e obbligo giuridico del vaccino per il dipendente: sono più i dubbi delle certezze

Giada Benincasa, Giovanni Piglialarmi

Abbiamo già discusso, sulla piattaforma del bollettino ADAPT, in merito alla possibilità per il datore di lavoro di obbligare o meno i propri dipendenti a vaccinarsi (A. Tarzia, Vaccino anti Covid e facoltà datoriali, in Bollettino ADAPT 21 dicembre 2020, n. 47). Il tema è diventato ora di maggiore attualità a seguito di alcuni autorevoli interventi recepiti nel dibattito pubblico e che, senza esitazioni o grandi dubbi, propendono per la tesi dell’obbligo.

In questa prospettiva vi è, per esempio, chi fonda le proprie convinzioni su alcune disposizioni contenute nel Testo Unico di sicurezza e salute sul lavoro (D.lgs. n. 81/2008) ed in particolare, l’art. 279 e l’art. 42 (R. Guariniello, Covid-19: l’azienda può obbligare i lavoratori a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it, 28 dicembre 2020). Il comma 2, lett. a), dell’art. 279 impone al datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione. L’art. 42, invece, stabilisce che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano una inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza. Tra queste misure, in base all’art. 279, comma 2, dovrebbe rientrare anche il vaccino e nel caso in cui il lavoratore dovesse rifiutarsi il datore di lavoro è obbligato ad imporne l’allontanamento temporaneo dal luogo di lavoro, finanche a licenziarlo se tale rifiuto metterà a rischio la salute di altre persone, così da costituire un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro (questa è la posizione espressa da P. Ichino in un’intervista al Corriere della Sera).

Non mancano invero tesi opposte. Vi è per esempio chi ritiene che gli obblighi imposti dalle disposizioni del Testo Unico non possano trovare concreta applicazione in quanto il datore di lavoro non è messo nelle condizioni di poter adempiere giacché le risorse e la procedura di vaccinazione sono ancora tutte in mano all’autorità sanitaria pubblica (G. Falasca, Non si può licenziare il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, in www.open.online.it, 25 dicembre 2020). Del resto è noto come le autorità preposte abbiano deciso di destinare le prime risorse agli anziani (e quindi a soggetti che sono esclusi dal mercato del lavoro) e al personale sanitario, ritenuto in base anche alle statistiche presentate dall’INAIL, la categoria più esposta al contagio (per un approfondimento, v. G. Piglialarmi, Covid-19 e infortunio sul lavoro: arrivano le prime statistiche fornite dall’INAIL, in Bollettino ADAPT 26 ottobre 2020, n. 39).

Altra opinione sostiene poi che l’idea di evocare l’istituto del licenziamento in caso di rifiuto da parte del lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione sia una posizione priva di fondamento normativo (F. Scarpelli, Rifiuto del vaccino e licenziamento: andiamoci piano!, 29 dicembre 2020). Anche nel caso in cui il datore di lavoro fosse obbligato ad integrare il sistema di sicurezza, procurando la possibilità della vaccinazione, non può in ogni caso ritenersi che sorga un medesimo obbligo per il lavoratore di sottoporsi al trattamento. E ciò perché il dipendente, in base a fondate prescrizioni mediche, può avere ragioni ostative al vaccino tra cui, sempre secondo questa opinione, motivi legati alla paura e alla convinzione personale, giustificando così un rifiuto da parte dei c.d. no-vax. In ogni caso, si precisa, per giungere a paventare un’ipotesi di licenziamento, il datore di lavoro dovrebbe affrontare un percorso ad ostacoli: in primis, dimostrare che la misura del vaccino sia indispensabile per tutelare la salute anche negli ambienti di lavoro e dei colleghi e che non vi siano misure alternative adeguate e ragionevolmente sufficienti (dispositivi di sicurezza, metodi di disinfezione, smart-working, ecc.); inoltre, non va dimenticato che sul datore di lavoro incombe sempre l’onere di provare a ricollocare il dipendente, magari su posizioni organizzative che presentino profili di rischio di contagio minori.

A parere di chi scrive, le tesi fin qui espresse sollevano, nella loro assolutezza, più di una perplessità e del resto, la loro frontale contrapposizione, sta di per se stessa a dimostrare come, in punto di diritto, la soluzione non sia cosa facile da raggiungere quantomeno da un punto di vista puramente formale e sistemativo.

Procedendo con ordine, l’art. 32 Cost. prevede che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Se da un lato è vero che il legislatore non ancora ha determinato per legge un obbligo specifico in tal senso (cioè di vaccinarsi contro il Covid-19), dall’altro è pur vero che vi sono due disposizioni, una generale e una specifica, che impongono al datore di lavoro di adottare specifiche misure per tutelare i lavoratori: l’art. 2087 c.c. e l’art. 279, comma 2 del  d.lgs. n. 81/2008. Il primo impone al datore di lavoro l’adozione di tutte le “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il secondo impone al datore di lavoro di adottare “misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche  per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali (…) la  messa  a  disposizione  di  vaccini  efficaci  per  quei lavoratori  che  non  sono  già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”. In questa prospettiva, l’obbligo di legge potrebbe essere rintracciato nell’attuale quadro normativo, valorizzando le disposizioni richiamate che possono andare a dare copertura alla riserva di legge posta dalla Costituzione.

Prima di addentrarci nelle problematiche relative all’obbligo di adozione di misure specifiche per contrastare i rischi negli ambienti di lavoro, preme anche rilevare che al momento il dibattito sembra tutto piegato sull’esistente (gli assunti o c.d. insider), senza tenere in debita considerazione che la questione potrebbe interessare anche i c.d. outsider, ovvero la parte di popolazione attiva che potrebbe trovarsi a stipulare un contratto di lavoro e quindi ad essere assunta da un’azienda.  Potrebbe il datore di lavoro chiedere al lavoratore che sta assumendo se si è sottoposto alla vaccinazione? La stipulazione o meno del contratto potrebbe essere condizionata da questo aspetto?

Una risposta univoca al problema non può esserci, soprattutto in assenza di un provvedimento dell’autorità in tal senso. Tuttavia, giova ricordare che l’art. 8 St. Lav. dispone “è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel  corso  dello  svolgimento  del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi (…) su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Cosa accade se il lavoratore in fase di assunzione dovesse mentire sul punto e poi essere adibito allo svolgimento di una mansione che annovera tra i rischi specifici la contrazione dell’infezione da Covid-19? Il vaccino è quindi un fatto rilevante ai fini dell’assunzione? Se il “fatto rilevante” ai fini dell’assunzione si intende “l’esistenza di quei presupposti che influiscono sulla bonitas dell’attività solutoria a cui è o sarà tenuto il debitore di lavoro” – bonitas che, peraltro, “va considerata nell’ambito di tutte le posizioni che assumerà il prestatore di lavoro nell’ambito dell’organizzazione produttiva e con riferimento a tutti gli obblighi complementari cui lo stesso sarà tenuto, oltre quello di adempiere la prestazione strettamente lavorativa” (M. T. Salimbeni, La nuova realtà tecnologica aziendale e l’art. 8 dello Statuto dei lavoratori, in AA. VV. Nuove tecnologie e tutela della riservatezza dei lavoratori, ed. F. Angeli, 1988, p. 151) – allora non potrà che rilevare, in primis, la mansione che il lavoratore andrà a svolgere e i rischi ad essa connessa.

Per quanto concerne, invece, l’obbligo che incombe sul datore di lavoro di far vaccinare i propri dipendenti, occorre segnalare che l’art. 279, comma 2 impone un tale obbligo (quello della vaccinazione) solo per contrastare patologie che possono derivare da agenti biologici presente nella lavorazione. La precisazione non è banale. Infatti, negli ambienti di lavoro non sanitari, il rischio Covid-19 si caratterizza per essere un rischio biologico generico (e non specifico) di origine esogena all’organizzazione dell’impresa. Pertanto, è per questa ragione che a parere di una parte degli interpreti, sarebbe da escludere l’obbligo del datore di lavoro di aggiornamento del DVR di cui agli artt. 28 e 29, comma 3 del D.lgs. n. 81/2008, giacché, secondo questa prospettiva, le previsioni normative in materia di salute e sicurezze sono pensate per prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro e, dunque, dall’organizzazione imprenditoriale. Quindi, si può parlare di rischio connesso e presente nella lavorazione, che impone anche l’aggiornamento del DVR, solo se questo è causato dalle scelte organizzative del datore di lavoro (o dalle stesse aggravato). In realtà, è stato anche sostenuto che a rafforzare questa lettura vi sono altre disposizioni (tra cui l’art. 2, comma 1, lett. n), e l’art. 17 del D.lgs. n. 81/2008) che mirano a circoscrivere la valutazione dei rischi, diretta solo ad individuare quelli di origine professionale e connessi all’organizzazione del lavoro.

Eppure, la giurisprudenza sembra essersi pronunciata nel senso opposto, ritenendo che sul datore di lavoro incomba la valutazione anche di rischi che non derivino direttamente dalle scelte organizzative dello stesso e/o dalla sua organizzazione (ad esempio, ghiaccio su strada, rischio sismico, etc.), facendo rientrare nell’ambito di protezione dell’obbligo di sicurezza datoriale alcuni rischi derivanti dall’ambiente esterno. In tal modo, si concretizza una sostanziale conversione dei rischi “generici” in rischi “specifici”. Non è mancata, infatti, un’interpretazione estensiva mirata a trascurare il fatto che il rischio da Covid-19 abbia avuto origine fuori dall’organizzazione aziendale, precisando che, invece, l’obbligo di sicurezza gravante in capo al datore di lavoro riguarderebbe sia i rischi endogeni (cioè quelli emersi dalla organizzazione nella quale il lavoratore presta la propria attività) sia i rischi esogeni (cioè quelli già presenti nell’ambiente sociale o nel territorio, ma che possono prevedibilmente riprodursi o/e aggravarsi nel perimetro dell’organizzazione).

L’aderire all’una o all’altra opzione interpretativa non è indifferente nel caso di cui ci stiamo occupando. Infatti, se si considera il Covid-19 un rischio di origine esogena all’organizzazione dell’impresa e si aderisce alla tesi secondo cui i rischi esogeni restano esclusi dalla obbligazione di sicurezza, non si comprende come possa il datore di lavoro imporre una misura come il vaccino ai sensi dell’art. 279, comma 2, se quel rischio non è connesso alla lavorazione. Se, diversamente, si aderisce alla tesi – che trova un avallo anche nella giurisprudenza di legittimità – per la quale l’obbligazione di sicurezza ricomprenderebbe non solo i rischi endogeni (cioè connessi alla lavorazione e al modello organizzativo) ma anche quelli esogeni, si potrebbe giungere ad affermare che il datore di lavoro sarebbe tenuto ad adottare la misura del vaccino. A questa conclusione, tuttavia,  non si può dare credito in modo così semplice. Infatti, resta dubbia l’idea per la quale si debba ricorrere ad una misura specifica (il vaccino, come si presume dalla formulazione letterale dell’art. 279, comma 2, lett. a), per contrastare un rischio che per quanto il datore di lavoro sia in dovere di tenere in debita considerazione nel DVR, resta pur sempre un rischio non specifico. Il dilemma, in altri termini, riguarda la possibilità di applicare una misura specifica, pensata per un rischio specifico perché connesso alla lavorazione, ad un rischio generico. Su questo fronte, non possiamo non rilevare che il nodo problematico non può che essere affidato alle parti sociali, posto che la costruzione delle misure di sicurezza nel diritto pandemico ha visto la continua concorrenza tra legge e accordi collettivi.

Per tale motivo, affrontando la tematica in parola, non possiamo trascurare quanto disciplinato dai protocolli di sicurezza, perno nella lotta alla diffusione del Covid-19 sin dall’inizio della pandemia (per un approfondimento sul ruolo del Protocolli “anti-contagio” si veda G. Benincasa, M. Tiraboschi, Covid-19: le problematiche di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro tra protocolli condivisi e accordi aziendali, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica, Volume V – Le sfide per le relazioni industriali, ADAPT e-Book, n. 93, 2020). 

Come è ben noto, infatti, è grazie all’intervento delle parti sociali e alla progettazione dei protocolli di sicurezza (il primo, di carattere nazionale, siglato dal Governo e dalle parti sociali il 14 marzo 2020 e poi aggiornato il 24 aprile 2020) che è stato possibile garantire la prosecuzione delle attività produttive tramite l’introduzione di adeguati livelli di protezione per la popolazione lavorativa. Non solo. Il legislatore è intervenuto statuendo altresì, con l’art. 29-bis del c.d. Decreto Liquidità, chei datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste” e aggiungendo altresì che “Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, ricordando la presenza di una pluralità di protocolli che i datori di lavoro devono tenere in considerazione al fine di adottare il proprio protocollo, redatto secondo le specifiche peculiarità organizzative dell’azienda.

Tuttavia, merita sottolineare che attualmente non vi è traccia, tra le misure di sicurezza disciplinate all’interno del protocollo condiviso del 24 aprile 2020, di un obbligo di somministrare il vaccino “anti-covid19” ai propri lavoratori come conditio sine qua non per svolgere la prestazione di lavoro (se non altro l’assenza è dovuta ad una questione di carattere temporale). Tentando di ripercorrere i contenuti del protocollo in parola che potrebbero mostrare una apertura in tal senso, non possiamo trascurare anche nel caso di specie il ruolo principe che assume la figura del medico competente (cfr. art. 12, del Protocollo di sicurezza condiviso del 24 aprile 2020) il quale collaborando con il datore di lavoro e con i RLS/RLST può “integrare e proporre tutte le misure di regolamentazione legate al COVID-19” nonché applicare “le indicazioni delle Autorità Sanitarie” (in questo senso un ruolo fondamentale è assunto anche dal Comitato di garanzia e applicazione del protocollo istituito al livello territoriale; cfr. art. 13 del Protocollo di sicurezza condiviso del 24 aprile). A tal proposito, merita ricordare altresì che lo stesso medico competente “in considerazione del suo ruolo nella valutazione dei rischi e nella sorveglia sanitaria, potrà suggerire l’adozione di eventuali mezzi diagnostici qualora ritenuti utili al fine del contenimento della diffusione del virus e della salute dei lavoratori“. 

Se tuttavia il vaccino “anti-covid19” non può essere considerato un mezzo diagnostico (come nel caso invece dei tamponi molecolari), quanto piuttosto uno strumento di tutela e prevenzione sia per il singolo lavoratore destinatario della misura che per i soggetti terzi, il medico competente – a seguito del coordinamento con le Autorità Sanitarie e con il datore di lavoro nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario nazionale/locale e il sistema aziendale di riferimento – potrebbe emettere giudizi di idoneità parziale e/o inidoneità temporanee per i lavoratori che rifiutano la vaccinazione, solo ad alcune condizioni, tra cui quella di valutare se il rischio può essere ridotto con misure di protezione alternative e di eguale efficacia e a seguito dell’inserimento del rischio da Covid-19 tanto del DVR, ad opera del datore di lavoro, quanto nel protocollo sanitario, a cura del medico competente.

Tuttavia, anche in questo caso, in mancanza un obbligo di vaccinazione ex lege sembrano persistere profili di dubbia legittimità tali da inficiare un eventuale licenziamento per inidoneità professionale causata dal rifiuto di un lavoratore di vaccinarsi. È infatti in tal senso che merita richiamare casistiche simili in cui si è previsto un obbligo di legge per la vaccinazione di alcune categorie di lavoratori al fine svolgere un determinato lavoro in quanto esposti ad uno specifico rischio biologico, come nel caso del vaccino per il tetano (di cui è stato introdotto l’obbligo con legge 5 marzo 1963, n. 292) o per la tubercolosi (BCG) ai sensi della legge 23 dicembre 2000, n. 388.

Infatti, il problema del rifiuto della vaccinazione da parte di un lavoratore rimane aperto e discusso anche in giurisprudenza. Una nota sentenza della Suprema Corte ha stabilito infatti chele misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche contro la volontà del lavoratore(Cass. pen., Sez. IV, 5 febbraio 1991, n. 1170), ritenendo, la Corte Costituzionale, doverosi gli accertamenti sulla salute dei lavoratori in determinati casi specifici, come nel caso delle indagini sulla sieropositività da HIV sui lavoratori impegnati in mansioni che possono comportare rischio di contagio per i terzi, stabilendo che il rifiuto del lavoratore a sottoporsi alla vaccinazione oltre ad avere un rilievo penale in relazione a quanto prevede l’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, impone anche al datore di lavoro l’attivazione di una procedura disciplinare (art. 7 legge n. 300/1970) che in tale fattispecie diventa doverosa (Corte Cost. n. 218/1994). In tal senso, tuttavia, merita richiamare anche un’altra pronuncia, più recente, della Corte di Cassazione in cui viene stabilito che poiché “il diritto alla salute ha natura indisponibile il lavoratore non può rifiutare le vaccinazioni purché ciò sia previsto dalla leggerichiamando il principio sancito nell’art. 32 Cost. per cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (Cass. pen., Sez. III, 21 gennaio 2005, n. 1728).

Se dunque, per il momento, sembra assumere un ruolo dirimente la presenza di una previsione ex lege al fine di istituire l’obbligo di vaccinazione senza incorrere in licenziamenti di dubbia legittimità, risulta auspicabile nei prossimi mesi un aggiornamento del protocollo nazionale condiviso dal Governo e dalle parti sociali nonché dei relativi protocolli territoriali, settoriali e aziendali. In tal modo, oltre ad intervenire sul tema per fare chiarezza, individuando, eventualmente, tale misura di prevenzione come necessaria e stabilendo il relativo obbligo per il datore di lavoro di rendere disponibili (e gratuiti) i vaccini “anti-covid19” per i propri dipendenti nel rispetto della privacy, tale aggiornamento consentirebbe di rendere ancora attuale la disposizione contenuta nell’art. 29-bis del c.d. Decreto Liquidità che, in caso contrario, rischierebbe di essere superata da quella “tecnica” richiesta dall’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di tenersi aggiornato sui sistemi di sicurezza messi a disposizione dal progresso scientifico.

In attesa di un intervento delle parti sociali e/o del legislatore, infine, merita porre particolare attenzione anche alla tematica dei cd. soggetti fragili per cui il protocollo nazionale prevede che “Il medico competente segnala all’azienda situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti e l’azienda provvede alla loro tutela nel rispetto della privacy“. Fermo restando quanto detto sopra in merito alla possibilità di rendere obbligatorio il vaccino e alle conseguenze che ne derivano, anche in questo caso il medico competente potrebbe assumere un ruolo strategico mediante la cd. “vaccinazione come raccomandazione” per poter svolgere il lavoro in sicurezza e ridurre fortemente il rischio di contrarre malattie infettive e sviluppare gravi complicanze.