La nozione di causa violenta
L’art. 2 del D.P.R. n. 1124 del 1965,
postulando, ai fini della
indennizzabilità dell’infortunio, che
lo stesso sia avvenuto in occasione del
lavoro, ha la finalità di coprire non
solo i rischi inevitabili, ma tutti quelli
ampiamente connessi all’attività di
lavoro e all’ambiente in cui questa si
svolge, senza conferire rilievo alla
maggiore o minore attenzione,
diligenza o prudenza dell’infortunato.
Consegue che l’infortunio sul lavoro
va configurato in tutte le possibili
eventualità concrete in cui l’attività
lavorativa può manifestarsi, ivi
comprese quelle che l’infortunato
avrebbe potuto evitare con un
comportamento più prudente. Pertanto, rientra nel rischio specifico
dell’incaricato della sorveglianza su
altri lavoratori quello connesso ai
rapporti intersoggettivi che le relative
mansioni comportano, tra le quali va
compresa l’esigenza di muovere
osservazioni, censure, rimproveri
sull’operato di altri dipendenti con
tutte le possibili implicazioni, anche
trasmodanti nella violenza (nella
specie il giudice del merito aveva
escluso l’occasione di lavoro – e
ritenuto viceversa il rischio elettivo –
in un’ipotesi in cui un lavoratore
addetto alla sorveglianza – mentre era
normalmente in servizio – era
accidentalmente deceduto nel corso
di un litigio insorto con altro
lavoratore al quale aveva
rimproverato di aver in precedenza
abbandonato illegittimamente il
posto di lavoro e la sua attività di
guardiano notturno)
In tema di infortuni sul lavoro la
causa violenta, quale prevista dall’art.
2 del D.P.R. n. 1124 del 1965 per
l’indennizzabilità dell’infortunio,
consiste in un evento che, con forza
concentrata e straordinaria, agisca – in
occasione di lavoro – dall’esterno
verso l’interno dell’organismo del
lavoratore, dando luogo alle
alterazioni lesive; pertanto in tale
nozione rientra anche lo stress emotivo ricollegabile al lavoro svolto
dall’assicurato, ancorché le
conseguenze lesive si determinino in
tal caso con il concorso di una
situazione morbosa preesistente
(nella specie la Suprema Corte ha
confermato la pronuncia del giudice
del merito il quale aveva ritenuto la
sussistenza della causa violenta in
un’ipotesi in cui il lavoratore era
deceduto per aneurisma addominale
ed infarto miocardico in occasione di
una vivace discussione avuta, per
ragioni d’ufficio, col suo superiore
gerarchico).
Con riguardo agli infortuni sul lavoro,
anche lo sforzo del lavoratore
assicurato, fatto in condizioni abituali
e tipiche di lavoro, che sia diretto a
vincere una resistenza peculiare delle
condizioni di lavoro e del suo
ambiente, assurge a causa violenta
allorché, con azione rapida ed intensa,
arrechi una lesione all’organismo del
lavoratore medesimo (nella specie la
Suprema Corte ha cassato per vizio di
motivazione la pronuncia del giudice
del merito il quale aveva escluso il
nesso di causalità in un’ipotesi in cui
un guardiano antincendio di un
cantiere forestale era deceduto per
infarto senza tenere conto, oltre che
del suo stato di salute malferma,
anche delle condizioni in cui si
svolgeva la prestazione lavorativa,
effettuata dal lavoratore in un
ambiente particolarmente assolato,
senza compagni di lavoro e senza
alcun presidio di pronto soccorso).
C. Cost. 21 marzo
1989, n. 137
Se per “opera manuale” deve
intendersi – come sembra corretto
intendere, pur con le estensioni
operate dalla giurisprudenza –
l’impiego di attività fisica diretto al
raggiungimento di un ulteriore
risultato, ne deriva che in tale nozione
non è compresa l’ipotesi di una
attività fisica che integri essa stessa un
risultato produttivo, come appunto
accade per quei lavoratori dello
spettacolo, i quali, attraverso il
muoversi, il gestire, il parlare, il
cantare e addirittura il semplice essere
fisicamente presenti, diano vita ad
uno spettacolo.
Va tuttavia rilevato che la limitatezza
della definizione dell’”opera
manuale” desumibile dalla legge appare un residuo della concezione
originaria dell’assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro come volta a
proteggere gli operai addetti a
macchine, apparecchi o impianti, in
quanto particolarmente esposti al
rischio nascente dai suindicati
strumenti. Ma in un contesto
normativo nel quale è già ammessa,
sia pure in via di eccezione e per
ipotesi tassativamente determinate
(art. 1, comma terzo, numeri da 1 a
28), una esposizione a rischio
assicurabile anche al di fuori
dell’impiego delle macchine, la
limitatezza in parola è contraddittoria
ed ingiustificata, dovendosi per
converso ritenere che l’assicurabilità
del rischio va sancita in relazione alla
natura obiettiva di esso, e,
soprattutto, che, qualora talune
attività siano assicurate in quanto
espongono ad un dato rischio,
obiettivamente considerato, non
possa, senza offesa degli artt. 3 e 38
della Costituzione, non stabilirsi la
copertura assicurativa per tutte quelle
che espongono allo stesso rischio.
In tema di assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro, la causa violenta,
quale prevista dall’art. 2 del D.P.R. n.
1124 del 1965 per l’indennizzabilità
dell’infortunio, consiste in un evento
che, con forza concentrata e
straordinaria, agisca – in occasione di
lavoro (nel senso di una derivazione
eziologica, anche se indiretta o
riflessa, dell’evento dall’attività
lavorativa) – dall’esterno verso
l’interno dell’organismo del
lavoratore, dando luogo alle
alterazioni lesive; pertanto in tale
nozione rientra anche lo stress
emotivo improvviso, dipendente da
evento eccezionale, ricollegabile al
lavoro svolto dall’assicurato,
ancorché le conseguenze lesive si
determinano in tal caso con il concorso di una situazione morbosa
preesistente (nella specie il giudice di
merito, con la sentenza confermata
dalla Suprema Corte, aveva ritenuto
indennizzabile quale infortunio sul
lavoro l’infarto del miocardio
istantaneo occorso, anche se in
presenza di precedente patologia del
sistema cardiocircolatorio, al
conducente di un treno in occasione
dell’improvviso attraversamento dei
binari da parte di una persona, a causa
dello stress ricollegabile al timore
dell’impatto con la medesima
persona).
Nell’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro, lo
sforzo messo in atto dal lavoratore, in
una delle situazioni tipiche ed abituali
del suo lavoro, al fine di vincere una
resistenza specifica delle condizioni di
lavoro e del suo ambiente, che
determini, con azione rapida ed
intensa, un infarto cardiaco e le
relative conseguenze invalidanti o letali, costituisce causa violenta, ai
sensi del testo unico dell’art. 2 del
D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 (nella
specie il giudice di merito, con la
sentenza confermata dalla Suprema
Corte, aveva ritenuto la sussistenza di
un infortunio indennizzabile in
relazione a quanto occorso all’autista
di un autobus in servizio di linea
extraurbano che, dopo un primo
malore, aveva ripreso la guida per
condurre a termine il servizio,
incorrendo in un secondo malore,
con infarto e conseguente decesso).
In materia di assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro, va annullata per
carenze e illogicità di motivazione la
sentenza che abbia escluso l’eziologia
lavorativa di un decesso per infarto
del miocardio sulla base di
considerazioni di carattere generale
circa una mancanza di correlazione
statistica tra la verificazione di eventi
di tal genere e lo svolgimento di
un’attività fisicamente impegnativa,
senza una valutazione in concreto
circa le modalità del lavoro svolto
dall’infortunato e la possibile
incidenza, anche solo concorrente,
dello sforzo fisico sull’esito letale.
In tema di infortuni sul lavoro,
affinché all’infarto cardiaco, il quale di
per sé rappresenta una rottura
dell’equilibrio nell’organismo
dell’assicurato, dovuta ad un’azione
determinata e concentrata nel tempo
(come l’atto di sollevare il fieno con
un forcone) – e quindi in grado di
assurgere a causa violenta – possa
essere riconosciuta un’eziologia
lavorativa, va accertato se gli atti
lavorativi compiuti, che non debbono
necessariamente esulare dalle
condizioni abituali e tipiche del lavoro
cui l’infortunato è stato addetto,
abbiano avuto l’efficienza causale
nella verificazione dell’infarto.
Nell’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni sul lavoro, al fine
di determinare se a un infarto
cardiaco – che di per sé rappresenta
una rottura dell’equilibrio
nell’organismo del lavoratore
concentrata in una minima misura
temporale e quindi integra una “causa
violenta” – è riconoscibile
un’eziologia lavorativa, va accertato
se l’attività lavorativa (che non deve
necessariamente essere caratterizzata
da sforzi particolari) abbia esercitato
il ruolo di elemento causale, anche se
concorrente con preesistenti fattori
patologici, e se sussista tra la stessa
attività e l’evento una contiguità
temporale; esclusa da un breve
intervallo tra lavoro e lesione, ove la lesione sia inequivocabilmente
riconducibile all’attività svolta in un
tempo immediatamente precedente
(nella, specie, l’infarto, intervenuto
presso il domicilio del lavoratore
poco dopo la conclusione dell’attività
lavorativa, era ricollegabile in maniera
specifica, sia pure in un quadro di
predisposizione patologica e di
abitudini lavorative e di vita, alle
prestazioni intense e stressanti
compiute per alcuni giorni dal
lavoratore stesso, funzionario
direttivo di una organizzazione
sindacale, ai fini dell’inaugurazione di
una nuova sede e delle manifestazioni
collaterali).
I caratteri della causa violenta in
relazione ai tradizionali requisiti della
esteriorità e del dispendio di energia,
la storica funzione della causa
violenta, quale discrimine tra
infortuni sul lavoro e malattie professionali, è ora affidata agli
ulteriori caratteri della rapidità e della
concentrazione, tanto più che il
medesimo fattore (ad esempio,
energia nucleare) può costituire
alternativamente causa di infortuni
sul lavoro o di malattie professionali,
a seconda se agisca in maniera
massiva e concentrata nel tempo
oppure diluita e lenta.
Nella ipotesi dell’infarto, come in
quella di scuola delle infezioni
microbiche e virali, vi è infatti e
comunque un punctum temporis in cui si
concentra la lesione determinante
l’infortunio: nell’infarto, la rottura del
muscolo cardiaco, anche se quale
momento di saturazione di precedenti
noxae accumulate; nell’infezione, come
penetrazione dell’agente estraneo
nell’organismo umano, nel quale
esplode la sua virulenza. Per lo stesso
motivo viene considerata infortunio
sul lavoro la morte lenta da asfissia a
seguito di crollo di galleria;
analogamente per i ballerini vi è
brusco movimento corporeo nel
quale, a seguito della pronuncia citata,
si deve ora individuare la causa
violenta.
In tema di infortuni sul lavoro, lo
sforzo fisico, al quale possono essere
equiparati stress emotivi e ambientali,
costituisce la causa violenta, ai sensi
dell’art. 2, T.U. 30 giugno 1965 n.
1124, che determina con azione
rapida e intensa la lesione; la
predisposizione morbosa del
lavoratore non esclude il nesso
causale tra lo stress emotivo e
ambientale e l’evento infortunistico,
in relazione anche al principio della
equivalenza causale di cui all’art. 41,
c.p., che trova applicazione nella
materia degli infortuni sul lavoro e
delle malattie professionali,
dovendosi riconoscere un ruolo di
concausa anche ad una minima
accelerazione di una pregressa
malattia (nella specie, la sentenza
impugnata, confermata dalla Corte
suprema, ha ritenuto sussistente
l’occasione di lavoro in relazione al
decesso del responsabile di uno
stabilimento, già affetto da patologia
cardiaca, avvenuto a causa di un
infarto determinato da stress emotivo,
conseguente all’attivazione
dell’allarme antincendio dello
stabilimento e alla necessità di un suo
intervento, e da stress ambientale,
riconducibile alla rigida temperatura
esistente all’esterno).
Con riguardo agli infortuni sul lavoro
disciplinati dal D.P.R. 30 giugno 1965
n. 1124, l’azione violenta che può
determinare una patologia riconducibile all’infortunio protetto
deve operare come causa esterna, che
agisca con rapidità e intensità, in un
brevissimo arco temporale, o
comunque in una minima misura
temporale, non potendo ritenersi
indennizzabili come infortuni sul
lavoro tutte le patologie che trovino
concausa nell’affaticamento che
costituisce normale conseguenza del
lavoro.